venerdì 9 agosto 2013

Perchè vale la pena di viverci




Ovidio Della Croce amico e animatore de La voce del Serchio, mi sollecita a scrivere sul “perché vale la pena di viverci”.

Provo, modestamente, a fare la lezione.

Per me le nostre terre, la valle del Serchio con Molina di Quosa in testa, dove sono nato in camera di mia nonna Varalda, sono “il luogo dell’anima”.

E’ casa mia; lì mi sento rapito e riesco a pensare con i tempi giusti. Rallento il battito del cuore.

E’ l’unico posto dove ripongo senza sforzo ogni inutile frenesia, che normalmente mi accompagna.

Lì in quei luoghi, anche se ci passo un anno o tre minuti, giusto per salutare mia madre, l’ozio è  virtù, un’eccellenza. Ed io lo pratico come una ginnastica per la mente.

E sto d’incanto, trascinandomi da un posto all’altro,senza fare niente di importante.

Uno stato d’animo che ti rende libero e annulla i sensi di colpa, che incombono tutte le mattine per le mille e mille cose che fai e quelle che lasci indietro.

Sia chiaro, io non ho mai smesso di credere che “nostra patria sia il mondo intero”; ma la chiave di scorta per entrare in quel mondo che vorrei migliore, nel caso smarrissi quella che mi porto sempre dietro, la tengo in un cassetto a Molina di Quosa.  Che come ho detto è luogo dell’anima, ma anche “buco del culo del mondo”, che  altro non è che la stessa cosa tradotta. La tua vita vera legata ad altri a doppio filo. E così gli indigeni capiscono molto bene.

Quando sono lontano da questi posti, e mi è capitato e mi capiterà,incontro tanti piccoli luoghi come questo.

A chi mi dice-" Da dove vieni?

Semplifico l’indirizzo rispondendo “Da Molina di Quosa in Valdiserchio.”

Poi do le coordinate geografiche, ci mancherebbe, ma dopo. D’istinto però ho sempre risposto il nome del mio paesello. Mai mi viene in mente di dire, dalla Toscana o da Pisa, che fa molto marketing.

E poi gli amici.

Conosciuti in tutto il mondo e tutti passati di lì; e in molti ritornati  e tanti che ritornano ancora, dopo anni.

E le fidanzate (senza esagerare) trascinate fuori dalla folla, a vedere i fuochi di San Ranieri dall’alto dei nostri monti o a passeggiare la sera tardi sulla via dei Molini; luogo dove un tempo avevi abbozzato anche una tesi di laurea mai finita; e dove, dopo una nevicata inusuale nel 1986, insieme ad altri "pazzi", hai anche sciato.

E le cene con la tua classe, ogni anno, organizzate lì; così come il tuo matrimonio con Giovanna.

E ancora oggi con gli amici di sempre, o quelli conosciuti appena ma che ti piacciono, le tappe sono sempre quelle.

E la solennità della Romagna, luogo dell’eccidio nazifascista e la memoria e i ragazzetti che la raccontano ogni 25 aprile.

Poi il Serchio, la valle  il mare e la marina di Vecchiano, che sentiamo come il mare a noi vicino;

e la torre di Pisa in lontananza, vista con le spalle ai monti, quasi a proteggersi dai “cittadini”, guardandoli negli occhi.

Di queste terre  conosci l’idioma, distingui le inflessioni paese per paese.

E se in qualunque stadio di calcio del mondo, assistendo ad una partita, sentissi gridare -“Levela”, durante una fase concitata del gioco; intendendo con quel grido, esortare il difensore a calciare la palla in tribuna, liberando l’area di rigore; bè tu capisci al volo che quell’allenatore non può che essere nato in Valdiserchio.

Così come quando senti dire “non lo sò” con la o chiusa, sai con certezza che hai a che fare con gente delle tue zone che “pende” verso Lucca.

E ancora.

Quante volte sei fuggito da lì, pensando di tagliare i ponti alle tue spalle e quante volte sei ritornato. Specialmente dopo ogni “rivoluzione”promossa e alla quale ti eri aggregato.

E come hai fatto presto a riparlare del Pisa e del campionato o rimetterti a segnare una bazzica al bar o più semplicemente recuperare tutte le notizie perdute sulle “corna” del paese, che hai appreso al volo passando una notte dal panaio o dal barbiere, tuo padre; che ti accettava in bottega purché non attaccassi briga con la politica. Rischiando altrimenti di essere allontanato, come era accaduto qualche volta in passato.

E che storie delle meraviglie hai imparato in quei luoghi. E quanto ti hanno cullato e cresciuto.
E che divertimento raccontarle a tua figlia Adele quand’era piccina.

Poi hai sentito che queste storie erano la vita di tanti mondi in uno e hai continuato a raccontarle, anche a 1000 km di distanza. E come ti capita spesso spieghi, ridendoci sopra come un giullare, perché “pipo o greppia” sia la stessa cosa che dire “o la va o la spacca” o l’esclamazione “vedremo” significa una cosa precisa che ti piace raccontare, come aveva fatto Marcellino… che vendeva i frati nella cesta nel dopoguerra.

E siccome queste storie sono diventate a poco a poco  parte della tua vita, ti senti debitore e hai preso l’impegno di raccontarle a chi verrà.

Ecco che allora, dopo “tante rivoluzioni promosse e partecipate” anche tu, come il colonnello Aureliano Bùendia di Cent'anni di solitudine,hai trovato i tuoi “pesciolinid’oro” da fabbricare giorno dopo giorno.

Perché  Comandante di queste terre, un po’ lo sei stato davvero e ne porterai i segni e la riconoscenza, per tutta la vita.
Gabriele Santoni